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giovedì 19 luglio 2012

Philadelphia

di Fabio Zoboli


Philadelphia, 1993.  Una città e una data non casuali. 
Philadelphia è una delle più antiche città degli Stati Uniti, vi furono redatte la dichiarazione di Indipendenza (1776) e la costituzione statunitense. Ma pur essendo così ricca di storia e di stampo prettamente europeo, tra le metropoli della Costa Est è forse quella che meglio rende l’idea del multiculturalismo, dato che la percentuale di bianchi e afroamericani è pressoché sovrapponibile. Il Benjamin Franklin Parkway, uno dei viali più celebri della città (spesso inquadrato anche nel film), è poi un simbolo d’internazionalità, famoso universalmente per la fila di bandiere di tutti i Paesi del mondo che costeggia entrambi i lati della strada. La scelta quindi di questa metropoli, nonché la decisione di renderla anche il titolo del film, comunica già un messaggio importante allo spettatore: un luogo che per definizione dovrebbe essere l’emblema dei diritti e della lotta contro ogni tipo di discriminazione. Ma non stiamo parlando di colore della pelle in questo caso, ma di omosessualità.
L’ambientazione nel cuore degli anni Novanta rappresenta poi la cornice ideale per trattare il tema dell’AIDS, malattia che raggiunse il culmine della sua drammaticità prima del 1996, anno dell’introduzione della HAART, la terapia antiretrovirale altamente attiva, che segnò un definitivo progresso nella cura (anche se non nella guarigione) della patologia. Ancora oggi non esiste un vaccino e 33,4 milioni di persone nel mondo vivono con l'HIV/AIDS, con 2,7 milioni di nuove infezioni HIV all'anno e 2,0 milioni di decessi annuali a causa di AIDS. Ma prima del 1996 questi dati erano ben più allarmanti e oggi un paziente sieropositivo, soprattutto nel mondo occidentale, pur con l’onere di una terapia per tutta la sua esistenza, può vantare una buona qualità di vita, nonché un tasso di sopravvivenza impensabile prima dell’introduzione dell’HAART.

La trama è semplice ma densa di significato: un giovane e brillante avvocato, Andrew Beckett (interpretato sublimemente da Tom Hanks, vincitore dell’Oscar come migliore attore protagonista per questa pellicola, anticipando il bis dell’anno successivo con Forrest Gump), viene licenziato con la scusa di aver rischiato di perdere una pratica importante. Il protagonista, che ha sempre tenuto nascosto la propria omosessualità per paura di essere discriminato in un ambiente conservatore e perbenista come quello dell’alta società americana, sa però che la verità è un’altra: i datori di lavoro si sarebbero accorti della sua malattia a causa delle prime lesioni sul suo volto e avrebbero deciso di allontanarlo con un pretesto. Beckett decide quindi di far causa al suo stesso studio legale. Il film racconta le varie fasi del processo, in cui a rappresentare Beckett c’è un secondo avvocato, Joseph Miller (Denzel Washington), uomo di colore e padre di famiglia dai sani principi, che ha l’incarico di dimostrare l’esistenza di questa presunta discriminazione, dovendo vincere lui stesso i pregiudizi verso il suo cliente omosessuale.
Un capolavoro cinematografico ancora attualissimo: come sempre in Italia viviamo decenni dopo situazioni già viste Oltreoceano, basti pensare alla xenofobia da noi all’ordine del giorno, che negli Stati Uniti aveva avuto l’acme negli anni Cinquanta e Sessanta. E anche sul tema dell’omosessualità, non ci facciamo mancare niente; cito solo due episodi, tra le possibili centinaia: la recente polemica in seno al Partito Democratico per la questione dei diritti delle coppie gay e il tema scottante dell’omofobia nel mondo del calcio, in cui al di là delle celebri parole di Cassano (“Son froci? Problemi loro..”), si denota una sostanziale incapacità di affrontare la questione con serenità e alla luce del sole, sempre con il terrore che l’omosessualità possa minare la sacralità dello spogliatoio. E qui mi fermo, ma penso che chiunque di voi abbia conosciuto tutta una serie di persone, più o meno intelligenti, che a parole predichi diritti per tutti ma poi concretamente sia visibilmente nauseata nel vedere due uomini mano nella mano o peggio, scambiarsi effusioni amorose… E non mi riferisco solo ad estremisti di destra, ma a buona parte dell’emiciclo italiano!
Dunque ben vengano pellicole come Philadelphia, dove il potere delle immagini penso possa far riflettere più di tante belle parole; perché se dal punto di vista medico sono stati fatti passi da gigante nella lotta all’AIDS, non si può dire lo stesso circa il livello di civiltà di un Paese che ambisce da sempre ad essere annoverato nell’Europa che conta. Si spera non solo dal punto di vista economico.

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