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martedì 24 luglio 2012

Risvegli (Awakenings)

di Fabio Zoboli
Ammetto che questo film sia maggiormente rivolto ad un pubblico di addetti ai lavori, o aspiranti tali, dato che riguarda specificamente l’ambito medico-scientifico, ma credo che chiunque possa apprezzarne l’alto valore artistico. Innanzi tutto perché il cast propone un certo Robin Williams come medico (anni prima del successo di Patch Adams) e un tale Robert De Niro come paziente (guadagnandosi una nomination come migliore attore protagonista, che se si fosse tramutata in Oscar non avrebbe certo destato scandalo). In secondo luogo perché, sebbene si parli di un “cronicario” e di patologie neuropsichiatriche complesse, lo spettatore viene coinvolto soprattutto sul piano emotivo, sopperendo quindi alla mancanza di conoscenza di malattie ultraspecialistiche.
Tratto da una storia vera (il romanzo di Oliver Sacks, neurologo e autore di diversi libri di successo basati sulle storie cliniche e umane dei propri pazienti e delle loro patologie), la pellicola racconta di come un dottore da sempre dedito solo alla ricerca e poco avvezzo alla pratica clinica sia stato capace di prendersi a cuore il destino di un gruppo di suoi pazienti catatonici, lasciati per lo più a se stessi, cercando di trovare una possibile cura per la loro condizione, per lo più causata da un’encefalite di origine sconosciuta che li aveva colpiti in giovane età. Il film si intitola Risvegli appunto perché si tratta di trovare un farmaco che possa riportare al presente questi individui resi dalla malattia delle statue nel proprio corpo. Senza anticipare nulla, posso comunque dire che il compito risulta essere tutt’altro che semplice, ma ciò che colpisce non è tanto il risultato finale, ma quanto la dedizione del medico, così diverso dai suoi colleghi e superiori, animati da un arrogante scetticismo verso qualsiasi tentativo d’innovazione e rassegnati all’idea dell’incurabilità di tali patologie.
Per attualizzare
 il tema in questione, mi permetto di muovere qualche piccola critica anche alla medicina contemporanea: agli studenti vengono propinate nozioni di psicologia generale, medica, clinica e chi più ne ha più ne metta, ma in fondo quello che conta davvero sarebbe solo un po’ più di buon senso. Mi spiego meglio: è inutile un bombardamento di nozioni su come si dovrebbe comportare un clinico se questi non abbia alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere e consideri il rapporto umano con il paziente come una seccatura. Ma è proprio questo il nocciolo del problema: la capacità di trovare tempo per il malato e non solo per la sua patologia. Certo non è facile, ci si rende inevitabilmente vulnerabili, consci dei propri limiti, ma il nascondersi non aiuta nessuno. E allora ben venga l’esempio di Oliver Sacks e di tutti quanti hanno speso la propria vita per colmare quelle lacune nelle conoscenze che sempre ci saranno, ma che possono essere supplite dall’impegno e dall’umanità. La mia non vuole essere una conclusione retorica, né una pubblicità progresso, solo una riflessione su come la medicina sia in continua evoluzione: i suoi interpreti pertanto non si possono permettere di rimanere fossilizzati su dogmi acquisiti, ma devono fare lo sforzo di guardare sempre avanti, ricercando il meglio in ogni situazione.

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